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Sentenze
Due i processi con sentenza definitiva della Corte di Cassazione.
“Io vorrei collaborare….con la giustizia,
quindi definendomi collaboratore... Però, per
quanto riguarda questo processo, vorrei definirmi io più che altro
un pentito, perché mi sono pentito realmente di aver commesso questo
omicidio...Riguardo ….io cominciai già a pensare
qualcosa del genere all’incirca, riguardo sul pentirmi, un sei mesi
addietro a questa parte…. E mi ha dato modo di pensare questo il
fatto che da un anno a questa parte io non ero più
sostenuto da nessuno, né economicamente né ….cioè in poche parole io
non ero più in condizioni di campare, come si suol dire la famiglia;
mi sono dovuto persino impegnarmi dell’oro che avevo io per potere
mandare dei soldi a casa….e fare….altre cose; addirittura farmi
prestare dei soldi per potere tirare avanti i miei figli e questa
cosa mi ha cominciato a fare pensare io con chi…per tutta…per gran
parte della mia vita, con chi ho avuto a che fare, se è stato giusto
le cose che ho commesso, i delitti….cioè questa
cosa mi cominciò a far pensare se era stato giusto quello che avevo
fatto io per conto di questa organizzazione. E da questo, ecco, che
io ho deciso anche di collaborare con la giustizia.
Adesso vorrei dire io cosa sono a conoscenza e le mie responsabilità
riguardo il delitto di Padre Puglisi.
Vorrei premettere un’altra cosa, che io….tengo a precisare che
non è assolutamente vero il fatto che io mi sia vantato,
dopo aver commesso questo omicidio, perché non ne
trovavo le ragioni, non me ne vantavo per altri omicidi….figuriamoci
di questo che già….anche perché, dopo averlo commesso, ci pensavo
spesso a questo omicidio e non vedevo la ragione per cui è stato
fatto….anche se i motivi ne sono a conoscenza, ma
non mi sembravano motivi validi per uccidere un prete.
Prima….volevo precisare un’altra cosa, prima dell’omicidio, ho
commesso un altro reato, lo dico perché secondo me è attinente a
questo omicidio. Fummo incaricati io, Spatuzza e Guido Federico di
bruciare tre porte di tre famiglie di uno stabile
di via Azolino Hazon, nei dintorni di questa via…perché queste
persone erano vicine a padre Puglisi.
I fatti che io conosco, le responsabilità dell’omicidio sono quelli
che un giorno…non ricordo se fu lo Spatuzza o Nino Mangano che un
giorno mi disse che dovevamo commettere questo omicidio, che deve
essere stato lo Spatuzza anche perché la persona che conosceva il
padre. Già aveva parlato con Giuseppe Graviano e si doveva
commettere questo omicidio, sicuramente ne parlai anche con Nino
Mangano, perché io non facevo niente se non ne parlassi con lui.
Quindi una sera….cercammo
di vedere i movimenti, gli spostamenti del padre e lo incontrammo a
Brancaccio, in un telefono pubblico. Non mi ricordo se già ero
armato o dopo averlo visto…ci recammo per armarci, anche se poi
l’unico a essere armato ero io e lo attendemmo nei pressi di casa.
Così fu,
eravamo io, lo Spatuzza, Giacalone Luigi e Lo Nigro Cosimo. Eravamo
comunque…non avevamo né macchine rubate, né motociclette, niente di
tutto questo, eravamo con le macchine….una era di disponibilità del
Giacalone, un BMW e una Renault 5 di proprietà del Cosimo Lo Nigro.
Scese Spatuzza dalla macchina del Lo Nigro, perché Spatuzza era con
Lo Nigro ed io ero con Giacalone. Il primo ad arrivare fu lo
Spatuzza, ricordo che il padre si stava accingendo ad aprire il
portone di casa, ….lo Spatuzza si ci affiancò, perché il padre aveva
un borsello, gli mise la mano nel borsello e gli disse: padre questa
è una rapina.
Allorchè il padre neanche si era accorto di me….e il padre, fu una
cosa questa qui che non posso dimenticare, perché ogni volta che
penso a questo episodio mi viene in mente questa visione del padre
che sorrise, non capii se fu un sorriso ironico o sorrise….sorrise e
gli disse allo Spatuzza “me l’aspettavo”. Allorchè io gli sparai un
colpo alla nuca e il padre morì sul colpo senza neanche accorgersene
di essere stato ucciso.
Dopo di ciò chiaramente il borsello fu portato via dallo Spatuzza…
Dopo di ciò ci recammo in uno stabilimento della zona industriale
cosiddetto Valtras, uno stabilimento di export-import…una specie di
spedizionieri erano e lì fu controllato il borsello. Ricordo bene
che c’era una patente, lo ricordo bene perché lo Spatuzza aveva la
mania, perché lui all’epoca già era latitante, di togliere le marche
da bollo che potevano servire per eventuali documenti falsi e tutti
i documenti e tolse le marche da bollo.
Tra le altre cose ricordo che c’era una lettera…non ricordo se è
stata inviata al padre o….c’era una busta con un foglio, una lettera
di una persona che gli aveva scritto che, se non ricordo male, gli
facesse gli auguri non so di cosa, all’incirca trecento mila lire e
poi altri pezzettini di carta…
Vorrei premettere che il borsello fu portato via, perché si voleva
far credere che l’omicidio….cioè l’omicidio dovevano pensare gli
inquirenti che era stato fatto da qualche tossicodipendente o da
qualche rapinatore, ecco perché fu utilizzata la 7,65, non è un’arma
consueta agli omicidi di mafia.
Questo è quello che io sono a conoscenza….."
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I processi istruiti dopo l'uccisione da parte della mafia di P.
Puglisi hanno avuto una conclusione definitiva con sentenza della
Corte di Cassazione.
Queste le sentenze e, in sintesi, i risultati :
Processo Don Puglisi (esecutori materiali):
Processo Don Puglisi (mandanti e esecutore materiale):
RISULTATI :
Mandanti dell'omicidio : fratelli
Giuseppe e Filippo Graviano, boss di Brancaccio, condannati
all’ergastolo
Esecutori :
Gruppo di fuoco :Gaspare Spatuzza (dal 2009 collabora con la
magistratura), Nino Mangano, Cosimo Lo Nigro, Luigi Giacalone, tutti
detenuti e condannati all'ergastolo.
Killer che ha sparato : Salvatore Grigoli, è diventato
collaboratore di giustizia dopo l’arresto. Ha una condanna a 18
anni. Nel luglio del 2004 ha ottenuto gli arresti domiciliari.
MOTIVAZIONI
(sentenza depositata in cancelleria in
data 19 giugno 1998)
La sentenza della seconda sezione della Corte d'Assise di Palermo
spiega il movente del delitto e lo scenario di Brancaccio:
"Emerge la figura di un prete che infaticabilmente operava sul
territorio, fuori dall'ombra del campanile... L'opera di don Puglisi
aveva finito per rappresentare una insidia e una spina nel fianco
del gruppo criminale emergente che dominava il territorio, perché
costituiva un elemento di sovversione nel contesto dell'ordine
mafioso, conservatore, opprimente che era stato imposto nella zona,
contro cui il prete mostrava di essere uno dei più tenaci e indomiti
oppositori.
Don Pino Puglisi aveva scelto non solo di "ricostruire" il
sentimento religioso e spirituale dei suoi fedeli, ma anche di
schierarsi, concretamente, senza veli di ambiguità e complici
silenzi, dalla parte di deboli ed emarginati, di appoggiare senza
riserve i progetti di riscatto provenienti da cittadini onesti, che
coglievano alla radice l'ingiustizia della propria emarginazione e
intendevano cambiare il volto del quartiere, desiderosi di renderlo
più accettabile, accogliente e vivibile”.
Testo integrale della requisitoria del pubblico ministero
Lorenzo Matassa tenuta il 23 febbraio 1998 davanti la Corte d’Assise
di Palermo:
Si
dice che nell’ultimo momento della vita, nell’atto dell’ultimo
respiro, ogni uomo ripercorra tutto il suo vissuto. In quell’unico
istante ogni essere potra` ritrovare se stesso in modo completo,
consegnandosi ai sorrisi cari degli amati o ai fantasmi del male. Si
dice che un vortice inarrestabile trascini chi la vita non ha piu`
(ma che la vita non ha ancora del tutto abbandonato) dal caldo
natale abbraccio della madre fino al pietoso gesto della chiusura
delle palpebre da parte di un ignoto passante o di un impotente
medico del pronto soccorso.
Ho provato tante volte a immaginare l’ultimo momento della vita di
don Giuseppe Puglisi non solo perché la sua umanità era, ed è, la
mia umanità (così come quella di tutti coloro che oggi si trovano
qui), ma perché in quel momento vi erano sicuramente registrati la
causa e il motivo del suo assassinio.
Forse nel suo sorriso morente non si erano imprigionati, come in una
fotografia, i volti degli assassini, ma - ditemi voi - era
importante sul Golgota conoscere che viso avesse colui che aveva
trafitto le mani, i piedi e il costato di un uomo sulla croce ?
Vi sono assassinii che trascendono coloro che li compiono. Vi sono
assassini che uccidendo un uomo uccidono un pensiero, una speranza,
un modo di essere, l'idea stessa di umanità.
Questo, signori giurati, è uno di quegli omicidi.
Vi avevo detto, nel corso della mia relazione introduttiva, che
questo processo ci avrebbe portato a ricostruire le circostanze che
portarono alla morte un uomo a causa del suo impegno evangelico e
sociale.
Vi avevo anticipato che avremmo attraversato il fondo più oscuro e
abietto del delitto e che avremmo avuto modo di constatare in quali
misere condizioni di assoggettamento e di omertà è costretto un
intero quartiere di Palermo.
Pensiamo che l'istruttoria dibattimentale sia stata fedele a questa
promessa.
Ho sentito dire che "la verità cerca chi la trova". Avete sentito
bene. Proprio in questa modalità inversa. E' la verità che insegue
colui il quale ne cerca l'esistenza. E' essa che si muove,
inarrestabile, dalle cose fino ai pensieri; si ricostruisce sotto lo
sguardo dell'indagatore fino a completarsi nel suo aspetto più
autentico e inoppugnabile.
Questo è accaduto in questo caso e in questo processo .
Come una invisibile calamita la verità ha magnetizzato a sé tutti i
pezzi dispersi dei luoghi, delle circostanze, degli uomini, delle
condotte, riassemblandole ordinatamente e offrendo il panorama
chiaro, completo, trasparente, inequivocabile di tutto ciò che
accadde prima, durante e dopo il momento in cui il povero corpo di
don Pino Puglisi si abbatté al suolo senza un grido. Ecco perché nel
Vangelo sta scritto che Nostro Signore è la via, la Verità e la
Vita. Perché la verità è veicolo di giustizia. E' l'essenza stessa
della giustizia. Questo processo è stato veicolo di verità. Allorché
il caso mi affidò la morte di don Giuseppe Puglisi come oggetto di
investigazione ebbi il vero traumatico contatto con il quartiere di
Brancaccio. La sua realtà di miseria, dolore, e morte.
Quartieri dormitorio, dove unica maestra di vita (per i ragazzi
cresciuti troppo in fretta) è la strada e queste strade, come per
esempio la via conte Federico, erano il ricordo e le lapidi per
centinaia di morti ammazzati.
Intere famiglie abbandonate a se stesse senza servizi, strutture
sociali, centri di assistenza, un po’ di verde dove spaziare.
Il quartiere di Brancaccio era (ed è) una frontiera scomoda per
tutti, un territorio a perdere, un qualcosa da dimenticare, da
lasciare al potere incontrastato dei criminali e dei mafiosi perché
guai a opporsi a loro.
Ecco
perché il quartiere di Brancaccio era una vera e propria missione.
Una missione difficile come alcune parti dell'Africa affamata o come
alcune zone della violenta America Latina. Una missione pericolosa.
Don Pino Puglisi doveva sapere tutto questo, ma la chiesa di
Brancaccio era la sua missione pastorale; ciò che Nostro Signore
aveva deciso che fosse.
L'unica cosa che forse non considerò era quella che egli sarebbe
rimasto solo, solo nell'opera pastorale e solo nella morte, solo
(come diremo)anche nel processo.
Io non dimenticherò mai il sorriso sereno di don Pino Puglisi mentre
il medico legale mi indicava il foro d'entrata della pallottola che
lo uccise.
Era il sorriso di colui il quale aveva scelto e abbracciato la sua
fede e con rassegnazione aveva accettato il suo destino con
l'estremo sacrificio.
Il quartiere conosceva tutto questo e in quei giorni era percorso da
una voce, un fremito indistinto ma corale.
Tutti (nelle piazze, dentro i bar, nei negozi e in ogni altro
disperso luogo di ritrovo del quartiere di Brancaccio) pronunciavano
sommessamente e paurosamente una unica parola che riassumeva
mandanti, movente e ogni altra circostanza del delitto. Tutti
pronunciavano una unica parola: mafia. Certo - signori giurati e
signori giudici togati - la mafia… direte voi era facile supporre,
era logico da desumere, era conseguente, avuto riguardo alla storia
che da sempre ha contrapposto i valori cristiani del bene alla
violenza e alla sopraffazione del male. Il bene a volte soccombe.
Era questo.
Ma - signori della Corte d'Assise - sapete quale era il rischio di
questa morte e di questa investigazione ? Era quello che ci si
potesse lentamente abbandonare alla deriva dell'indistinto scenario
di un martirio cristiano.
Chi di voi, infatti, conosce il nome di colui che trafisse il
costato di Nostro Signore sul Golgota ?
Che importanza poteva avere di fronte all'enormità dell'assassinio
di un innocente che aiutava l'infanzia abbandonata, le famiglie
senza pane, le donne violentate e ferite, i tossicodipendenti, che
importanza aveva a fronte di tutto questo chi lo aveva ucciso ?
La mafia lo aveva ucciso. Il male indistinto che - come a volte
accade - prevale sul bene. Era tutto lì.
La mano sarebbe rimasta nell'ombra ancora per qualche tempo fino al
giorno in cui, per eliminare ogni prova residua, la mafia si sarebbe
disfatta anche dell'esecutore o degli esecutori. La storia di questo
assassinio si sarebbe disciolta nell'acido. Ecco quale era il
rischio di questa indagine.
Ma, come vi ho già detto, la Verità è andata alla ricerca dell'uomo
e si è mossa, inarrestabile, dalle cose fino ai pensieri.
Meditando questa requisitoria mi sono chiesto quale può essere il
virtuale desiderio di ogni organo inquirente, di ogni valente
indagatore delle cose umane (e non necessariamente delle cose
giudiziarie) che si trovi nella necessità di ricostruire un fatto
nella sua interezza, investigarne i contorni e le circostanze per
acclararne la verità.
La scienza è antica quanto l'uomo e ha un nome altisonante e forse
difficile da pronunciarsi: epistemologia, ovvero scienza della
conoscenza .
In altri termini, si arriva alla ricerca della verità se e in quanto
si è dapprima conosciuto un fatto; la corretta conoscenza del fatto
permettendo anche una corretta formazione della verità.
In un fatto omicidiario, di regola, ci si muove a ritroso cercando
di ripercorrere la via ante acta della vittima dall'ultimo respiro.
Quasi mai la fortuna consente di fotografare il momento esiziale del
delitto e anche se questa fotografia vi fosse essa non riprenderebbe
quello che voi e noi riteniamo elemento più importante: il movente.
Il movente è quell'invisibile filo di Arianna che permette di
decifrare e decodificare tutte le azioni e mostrale in chiaro a chi
ne ha registrato solo l'effetto finale. Il movente è più del motivo:
è la spiegazione delle condotte.
Quale allora può essere il virtuale desiderio di un organo
inquirente se non quello di intuire il movente e da questo
riporcorrere, nella successione più aderente ai fatti, ogni condotta
di coloro che il movente hanno condiviso dando loro un volto e un
nome?
Questo è accaduto nelle indagini relative all'omicidio di don
Giuseppe Puglisi dove (scartate, dopo i primi accertamenti, le
ipotesi di un delitto d'impeto o latamente occasionale) il motivo si
manifestò chiaro nell'attività evangelica e pastorale e nella chiara
contrapposizione di questa attività al regime di terrore, morte e
sopraffazione imposto dalla mafia.
Tipici gli avvenimenti ammonitori (le violenze private, gli incendi
e i danneggiamenti) che avete udito raccontare alle persone vicine a
don Puglisi e ai rappresentanti del comitato intercondominiale
(29/6/93) così come quelli che sapete essere stati cagionati
all'impresa che lavorava alla ristrutturazione della chiesa di San
Gaetano il 25/5/93 (anche se avete assistito all'omertosa negazione
del titolare dell'impresa Balistreri, negazione reiterata pure a
fronte della oramai appresa circostanza della dolosità dell'atto
dichiarata da chi l'atto di danneggiamento aveva posto in essere).
La chiesa di Brancaccio e la semplicità disarmante di don Pino
Puglisi erano una spina nel fianco della mafia di quel quartiere (e
aggiungerei di tutte le mafie) che vedeva compromesso il suo
primato.
Forse sarebbe bastato questo, così come bastò in altre occasioni e
in altri tempi, per ammazzare il messaggio dei miti della terra come
Gandhi, Martin Luther King o Monsignor Romero, quest'ultimo - lo
ricorderete - ucciso dai cartelli colombiani della coca.
Ma nel nostro caso era accaduto qualcosa di più. Qui il motivo
doveva essere più concreto, più tangibile e immediato.
L'ipotesi fu confermata da un collaborante storico, profondo
conoscitore della fenomenologia omicidiaria in Cosa Nostra e più
volte ritenuto della massima attendibilità da parte del Supremo
Collegio.
Giovanni Drago, pur chiarendo di essere stato detenuto al tempo
della morte di don Giuseppe Puglisi, rassegnava alla conoscenza
degli investigatori un particolare relativo all'attenzione che Cosa
Nostra aveva riposto sul prelato.
Cosa Nostra aveva incaricato un insospettabile di seguirne le mosse
per comprenderne cosa esattamente ruotasse attorno al centro di
accoglienza Padre Nostro promosso da don Pino nella via Conte
Federico.
La situazione era di massima importanza per Cosa Nostra.
Situato in un crocevia strategico del quartiere di Brancaccio a
pochi passi dalle abitazioni di molti esponenti latitanti
dell'organizzazione (ma soprattutto a pochi metri dalle abitazione
dei latitanti fratelli Graviano capi indiscussi della famiglia di
Brancaccio nonché componenti di spicco del vertice mafioso
siciliano), il centro d'accoglienza Padre Nostro era un continuo
andirivieni di persone assolutamente non controllabili. Tra esse
potevano nascondersi investigatori e agenti di polizia in un momento
storico in cui le stragi e le bombe, esplose nel paese,
intensificavano le ricerche dei sospetti per crimini orrendi.
Povero don Pino. Questo sospetto non era vero. Nessuna traccia anche
minima dell'indagine ha mai confermato questa vocazione sbirresca
del prete di frontiera.
Lo ripetiamo qui, davanti a tutti e soprattutto davanti a questi
imputati, mai don Pino diede aiuto alla polizia e gli armadi del
centro di accoglienza Padre Nostro erano pieni di medicinali, di
pasta, di pane, di vestiti, di giocattoli e di ogni altro bene che
serviva alla sua gente, alla gente che egli curava e che, disperata,
non aveva nulla.
Ma il centro d'accoglienza Padre Nostro doveva cessare di esistere
per eliminare alla radice il potenziale pericolo alla latitanza dei
fratelli Graviano e di ogni altro componente dell'organizzazione.
In effetti la scelta criminale fu graduata rispetto alle necessità e
all'indomani dell'assassinio (lo avete udito dai testimoni) sia il
comitato intercondominiale che il centro Padre Nostro cessarono di
vivere.
Questo fu il reale movente dell'assassinio.
Se il movente partiva dalla necessita` di coprire la latitanza dei
capi incontrastati del quartiere Brancaccio, era all’interno del
gruppo criminale che bisognava dare un nome e un volto a coloro che
avevano agito.
L’uomo prescelto dalla famiglia mafiosa per il controllo del prete,
il dott. Nangano Salvatore, fu arrestato quasi subito e la sua
posizione è stata definita con le forme del rito abbreviato e
l’irrogazione di una condanna, passata in giudicato, a anni due di
reclusione per il reato di partecipazione esterna all’associazione
per delinquere Cosa Nostra.
Il labirinto delle complicità e delle responsabilità andava mano a
mano delineandosi, la nebbia dell’omertà si diradava.
Di Filippo Emanuele, Di Filippo Pasquale e Cannella Tullio uomini
tutti gravitanti nel gruppo mafioso di Brancaccio si aprivano alla
collaborazione.
Si rafforzava il quadro probatorio già esistente a carico dei
fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, e era identificato uno degli
autori materiali dell’omicidio: Grigoli Salvatore.
Non ripeterò qui ciò che avete udito nel corso dell’istruzione
probatoria e che sarà oggetto prossimamente della decisione della
Corte d’Assise apertasi sul processo ai mandanti. Tassello dopo
tassello, circostanza dopo circostanza una cascata di verità
travolgerà beneficamente le investigazioni prima e il processo poi.
Uno dopo l’altro, a seguito della cattura dei capi mafia di
Brancaccio e di alcuni importanti gregari, si aprivano alla
collaborazione altri componenti di Cosa Nostra (Romeo, Ciaramitaro,
Calvaruso, Carra, Scarano). Un fiume in piena travolgeva Cosa Nostra
di Brancaccio.
Grigoli Salvatore, detto "il cacciatore", non era stato l'unico
assassino. Altri lo avevano aiutato a compiere la missione di morte.
Come se per uccidere un prete, povero e solitario fosse necessario
un plotone. In effetti questa necessità non c'era. Ma questa era, ed
è, l'operatività militare di Cosa Nostra che, anche per un obiettivo
semplice e inerme come don Pino, esigeva le sue pianificazioni e le
sue sicurezze operative. Disponibilità di informazioni, denaro, armi
e esplosivo, auto e moto per veloci spostamenti, complicità
insospettabili nel territorio, luoghi dove condurre le vittime per
interrogatori con tortura e dissolvimento dei corpi, coperture nella
esecuzione dei delitti, fughe protette.
Tutto questo e altro ancora (di criminale) era il gruppo di fuoco
della famiglia di Brancaccio. Pronto a ogni operazione, anche la più
crudele, come l'assassinio di bambini o di donne incinte, pronti
alla strage dei luoghi dell'arte e della storia del nostro paese,
pronti a colpire degli ignari spettatori all'uscita di uno stadio,
pronti a abbattere un elicottero, pronti a tutto.
Uno dopo l'altro i componenti del gruppo di fuoco venivano
individuati e arrestati, alcuni dopo anni di latitanza.
I loro nomi li avete uditi più volte in questa aula, i loro volti
sono a voi conosciuti, i collegamenti tra gli stessi hanno il valore
probatorio quasi di un fatto notorio: Mangano Antonino, Spatuzza
Gaspare, Lo Nigro Cosimo e Giacalone Luigi, sono gli stessi uomini
accusati, insieme a altri, di avere causato terrore e morte in tutta
Italia.
Essi erano insieme al "cacciatore" al momento dell'esplosione del
colpo mortale alla nuca del povero don Pino Puglisi.
Vi avevo già detto che, meditando questa requisitoria, mi sono
chiesto quale potesse essere il virtuale desiderio di ogni organo
inquirente, di ogni valente indagatore delle cose umane (e non
necessariamente delle cose giudiziarie) che si trovi nella necessità
di ricostruire un fatto nella sua interezza, investigarne i contorni
e le circostanze per acclararne la verità.
Avevo detto che la maggiore aspettativa è quella di individuare il
movente e da questo ricostruire passo dopo passo ogni circostanza e
ogni condotta che, nell'attuazione di quel movente, ha dato un
contributo causale.
Ma quale massima aspettativa può invece nutrirsi ? La massima
aspettativa è che questo movente e queste prove convergenti si
manifestino in tale e innegabile evidenza da determinare uno dei
protagonisti ad ammettere i fatti per come essi si sono in effetti
svolti. Ecco allora ai vostri occhi cosa avvenne prima, durante e
dopo l'assassinio di don Pino Puglisi dalle parole di colui
[Salvatore Grigoli] che esplose l'unico e mortale colpo.
Come ho anticipato in sede di spontanee dichiarazioni e al gip,
confermo di avere eseguito l'omicidio di don Pino Puglisi.
L'omicidio fu deliberato da Graviano Giuseppe, come ho appreso dallo
Spatuzza, in quanto lo stesso sospettava che il sacerdote
permettesse alle forze di polizia di infiltrarsi nel quartiere per
catturare latitanti.
Il Graviano fece sapere che l'omicidio non doveva apparire come un
omicidio di mafia bensì come l'opera di un tossicodipendente o di un
rapinatore. Per tale motivo fu utilizzata una pistola calibro 7,65
silenziata e al sacerdote fu sottratto il borsello.
Dell'omicidio era al corrente anche Mangano Antonino, al quale
chiesi spiegazioni e che mi confermò che l'omicidio andava eseguito
perché interessava la famiglia mafiosa. Dopo qualche giorno
dall'ordine ricevuto incominciammo a seguire i movimenti del
sacerdote.
Una sera lo localizzammo nei pressi di San Gaetano, forse mentre
parlava a un telefono pubblico. Non ricordo se nell'occasione
eravamo già armati ovvero ci allontanammo a prendere l'arma di cui
ho già detto.
Abbiamo quindi incrociato una seconda volta il sacerdote mentre si
apprestava a entrare nel portone della palazzina dove era ubicato il
suo appartamento.
Il gruppo che ha operato era così composto: a bordo della BMW, nella
disponibilità di Giacalone Luigi, mi trovavo io e lo stesso
Giacalone; a bordo di una Renault 5, Lo Nigro Cosimo e Spatuzza
Gaspare.
Dalle rispettive autovetture siamo scesi io e lo Spatuzza.
Quest'ultimo avvicinò il sacerdote gli prese il borsello e gli
disse: "padre, questa è una rapina".
Nel frattempo io, posizionandomi dietro il sacerdote, esplodevo un
colpo di pistola alla nuca di quest'ultimo da brevissima distanza.
Il sacerdote non si è reso conto di nulla in quanto con un sorriso
si era rivolto allo Spatuzza profferendo le seguenti parole: "me lo
aspettavo".
Terminata l'esecuzione siamo risaliti sulle autovetture e ci siamo
diretti verso il deposito Valtras (impresa di trasporti e
spedizioni) all'interno del quale abbiamo esaminato il contenuto del
borsello anche per rintracciare eventuali indirizzi di poliziotti o
investigatori.
All'interno del borsello abbiamo rinvenuto circa duecentomila lire,
una patente di guida e una lettera indirizzata al sacerdote e
contenente apprezzamenti per la sua opera.
Lo Spatuzza si impossessò delle marche della patente del Puglisi.
L'arma fu successivamente distrutta per non lasciare tracce di un
omicidio che era diventato rilevante per l'opinione pubblica.
A domanda risponde:
In effetti l'omicidio fu preceduto da un attentato
incendiario ai danni delle abitazioni di alcune persone abitanti in
via Azolino Hazon. Anche in questo caso l'ordine partì da Graviano
Giuseppe. L'attentato fu materialmente eseguito da me, da Spatuzza
Gaspare e da Federico Vito. Cascino Carlo, come preciso in sede di
verbalizzazione riassuntiva, aiutò il Federico nella fase successiva
all'attentato coprendone la fuga a bordo di un ciclomotore Peugeot.
Ricordo che la sera in cui compimmo questo attentato abbiamo
compiuto l'attentato ai danni di un esercizio di tabaccheria sito in
Brancaccio nella continuazione della via Emiro Giafar.
A domanda risponde:
L'attentato incendiario che distrusse l'automezzo della ditta che
lavorava alla ristrutturazione della chiesa di San Gaetano fu
compiuto da Giuliano Francesco (inteso Giuseppe "Olivetti").
A domanda risponde:
La famiglia di Brancaccio, fino alla data di arresto dei fratelli
Giuseppe e Filippo Graviano, era retta da Graviano Giuseppe.
Graviano Giuseppe si occupava direttamente del gruppo di fuoco,
mentre suo fratello Filippo curava le estorsioni e i rapporti con i
costruttori edili.
Io non ho avuto rapporti diretti con Graviano Filippo, che pure
conosco fin da ragazzo per essere cresciuti nel medesimo quartiere,
e tuttavia ritengo che le decisioni più importanti per la famiglia
fossero prese di comune accordo tra i due fratelli. Graviano
Benedetto, con il quale ho pure commesso un omicidio - come ho in
altra sede riferito - non aveva grande potere decisionale anche
perché aveva un carattere piuttosto semplice.
Cosa altro aggiungere a questa inequivocabile e tragica verità se
non che l'istruzione probatoria dibattimentale ha ulteriormente
comprovato il possesso da parte del Giacalone Luigi di
un'autovettura del tipo BMW 316 e da parte del Lo Nigro Cosimo di
una Renault 5.
Cosa altro aggiungere se non che l'istruzione dibattimentale ha,
altresì, comprovato una circostanza da brivido freddo: l'esecuzione
dell'omicidio Puglisi, con l'eco che ne seguì, ebbe a ritardare una
strage ancora più grande (non verificatasi per puro caso) che gli
stessi uomini oggi a giudizio avrebbero dovuto provocare mediante
l'esplosione di una vettura carica di tritolo, in Roma, all'uscita
di uno stadio al termine di una partita di calcio.
Questi sono gli uomini che giudicherete.
Signori della Corte d'Assise adesso io vi chiederò di dare giustizia
per l'assassinio di don Pino Puglisi.
Ma nel chiedervi giustizia, da pubblico ministero, da cittadino (e
forse anche da distratto cristiano quale sono) vivo un senso di
difficoltà.
Non prendete le parole che dirò come un atto di sfiducia al vostro
operato o all'astratto e alto mandato che il popolo italiano vi ha
attribuito.
Precedentemente ho detto che la Verità è veicolo di giustizia. È
l'essenza stessa della giustizia e che questo processo è stato
veicolo di verità.
Ma è la verità la sola componente utile a determinare giustizia ?
In altre parole, basta ricostruire puramente e semplicemente la
verità di un fatto e scolpirla sui verbali di un processo o sulle
piste magnetiche di un registratore perché da noi tutti si possa
dire: "Abbiamo fatto giustizia" ?
La risposta è no. E non perché la verità non basti da sola a
determinare e affermare la responsabilità penale di un imputato ma
perché essa dovrà essere dichiarata, nel processo penale, davanti a
tutti coloro che hanno il diritto, ma anche il dovere morale, di
ricercarla e di sentirla dichiarare in nome di colui il quale non ha
più voce per poterne chiedere l'affermazione.
Toccherò, senza ipocrisia o falsi infingimenti, un aspetto di questo
processo che - quali giudici uomini e donne intelligenti del
dibattimento - avrete sicuramente già notato.
Dove sono le parti civili in questo processo ? Dov'è la Chiesa che
ha visto assassinare uno dei suoi figli migliori ? Dove sono le
istituzioni territoriali che la mafia assedia ?
La lotta alla mafia così come i processi a essa devono essere atti
corali.
Per questo dico che la giustizia non è soltanto verità ma anche
partecipazione umana, è coinvolgimento, è impegno civile continuo e
di tutti.
Da parte di tutti e primi fra tutti coloro che hanno il dovere
morale e giuridico della partecipazione perché sono i soli che
possono dare voce a chi mai più potrà averla.
Udite il paradosso. La mafia di Brancaccio sarà forse condannata in
questo processo ma il centro Padre Nostro, la Chiesa di Brancaccio,
le istituzioni del quartiere, il comune di Palermo non avranno, da
questo processo, un soldo per continuare a far vivere la idee che il
povero don Puglisi coltivava ogni giorno.
Avete udito la risposta della Chiesa attraverso un suo
rappresentante in dibattimento. Vi è stato detto da parte del
successore di don Pino Puglisi che la Chiesa non si occupa della
responsabilità penale degli uomini ma del loro destino sovraterreno.
Niente di più errato, niente di più ingiusto per la memoria di don
Pino Puglisi che a questa povera e bistrattata umanità di Brancaccio
aveva cercato di dare il "pane quotidiano" ma anche quello materiale
come atto di carità e di giustizia.
Sarebbe stato, pertanto, atto laico di carità (laico tanto quanto
l'offertorio di danaro nel rito celebrativo della messa o
l'accettazione dei lasciti ereditari dei privati) costituirsi parte
civile, nella memoria di don Pino Puglisi, perché la chiesa di
Brancaccio avesse voce e vedesse riconosciuto - con atto di
giustizia - quel denaro utile a continuare l'opera di risanamento
pastorale così tragicamente interrotta dalla mafia.
Ecco cosa sarebbe stata giustizia.
Ecco perché, in nome soltanto della verità che così fedelmente
abbiamo ricostruito nel processo e senza attenuanti di sorta per
coloro che hanno insanguinato il paese vi chiedo il massimo della
pena.
Vi chiedo, previa riunificazione dei reati contestati, di irrogare
l'ergastolo con isolamento per Mangano Antonino, l'ergastolo con
isolamento per Giacalone Luigi, l'ergastolo con isolamento per Lo
Nigro Cosimo, l'ergastolo con l'isolamento per Spatuzza Gaspare. Vi
chiedo, sussistendone tutti i requisiti in fatto e in diritto, di
emettere ordinanza di custodia cautelare in carcere per Lo Nigro
Cosimo.
Non ho ancora del tutto completato il mio intervento.
Ricordate, giudici della Corte d'Assise, cosa raccontò "il
cacciatore" riguardo a ciò che avvenne dopo che don Giuseppe Puglisi
fu ucciso ? L'assassino riferì che lo Spatuzza Gaspare gli sottrasse
il borsello e si impossessò delle marche della patente.
Singolare assonanza con ciò che vi è scritto nel Vangelo secondo
Giovanni dopo la crocifissione di Nostro Signore Gesù (Vangelo
19,25): Si son divise tra loro le mie vesti. Ma questo Spatuzza
Gaspare e i suoi correi non potevano saperlo.
Vi ringrazio.